I 70 anni della “Carta di Chivasso”

travaglini-2-piccolaPalazzo Tesio, nella centralissima Piazza D’Armi di Chivasso, si presenta con una sobria facciata in mattoni a vista ed è un bell’esempio di palazzo tardo barocco, risalente al XVIII secolo.
E’ lì che, il 19 Dicembre 1943, venne sottoscritta la dichiarazione dei rappresentati delle Popolazioni Alpine, nota come la “Carta di Chivasso” . Un documento di straordinaria attualità che costituì un contributo importante nel successivo dibattito sulla nuova Carta Costituzionale e fu alla base della redazione dell’art. 5 della stessa sul riconoscimento delle autonomie locali.
Il testo, redatto a conclusione di un convegno clandestino, fu firmato alla presenza dei rappresentanti del CNL chivassese, nello studio del geometra Edoardo Pons, da Emile Chanoux ed Ernesto Page della resistenza Valdostana, da Osvaldo Coisson, Gustavo Malan, Giorgio Peyronel e Mario Alberto Collier della resistenza Valdese.
La “Carta di Chivasso”, insieme al “Manifesto di Ventotene”, redatto nel 1941 da Altiero spinelli ed Ernesto Rossi, costituisce la base del moderno pensiero autonomista e federalista italiano ed europeo. Quel freddo dicembre del 1943, segnò l’inizio di un processo originale ed attualissimo, legando alle rivendicazioni antifasciste l’idea dell’autonomia e del federalismo dei territori alpini.
Un tema oggi attuale, in tutte le “terre alte” e particolarmente in una provincia come il Vco che, con le consorelle Belluno e Sondrio, rappresenta sul territorio nazionale la montagna vera.
Quella montagna dove tutto si declina attraverso il trinomio altitudine, asperità e clima. Un trinomio imperfetto, a ben vedere, perché bisognerebbe allargarlo alla difficoltà dei collegamenti, ai costi sociali, alla cura del territorio. Tornando alla Carta, che per molti rappresenta una vera e propria “Costituzione delle terre alte”, si può notare che, in essa, s’incrociavano due aspetti decisivi: l’unicità del territorio montano e il bisogno di autogoverno.
Da una parte gli alpeggi, le valli, i boschi che furono luogo di rifugio e di “formazione” per una generazione di democratici che lo scelsero come teatro della lotta di Liberazione; dall’altra gli aneliti d’autogoverno che le popolazioni alpine hanno sempre manifestato e che, in quegli anni, – in qualche modo – si esemplificarono nelle Repubbliche partigiane e, in particolare, in quella dell’Ossola, con il suo governo dei “quaranta giorni di libertà”.
C’è, a ben vedere, un nitido legame tra la Resistenza, un progetto di società e di collocazione delle montagne sulla scena nazionale che, settant’anni dopo, pone ancora domande e attende ancora risposte.

Marco Travaglini

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