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L’onda dei migranti, la sfida dell’Europa

immigrazione immigratiCome un fiume in piena, l’onda dei migranti risale la penisola balcanica . Affronta i pericoli, a volte incontra la morte, non si cura di bandiere e frontiere. Apre una pista nuova:la “Western Balkan route”. Ignora nei fatti le demarcazioni fra aree di libera circolazione (Shengen), i paesi dell’Unione europea e le altre nazioni.
Gli scontri di questi giorni sulla “hot line” tra Grecia e Macedonia e lo sgombero dell’accampamento di Calais,dove i migranti attendono di passare la Manica e raggiungere la Gran Bretagna. Siamo di fronte ad una enorme tragedia umanitaria.
Dopo il canale di Sicilia e le coste d’Italia sempre più spesso si sbarca in Grecia. Da lì l’onda umana esce per entrare in Macedonia; vi rientra dopo aver attraversato la Serbia. L’Ungheria  ha innalzato il suo muro.
Altre barriere e reticolati si stanno alzando, un pò ovunque. Gli accordi di Shengen sono ricusati da alcuni stati, mentre altri li hanno sospesi. C’è chi chiede che vengano messi in mora per uno, due anni. Forse per sempre. Segnando la fine dell’Europa che non può essere ridotta a vincoli, moneta, banche e un pò di burocrazia.
I profughi  mostrano volti e storie che non si possono spiegare con le parole. I controlli, i numeri chiusi, difficilmente li fermeranno. Le guerre, la miseria e la fame sono una spinta troppo forte. E troveranno, davanti agli ostacoli, altre strade.
L’Italia è una di queste, a partire dalle coste del Salento dove già nei primi anni ’90 arrivarono i migranti albanesi sui primi gommoni. L’immigrazione, o meglio la gestione di migranti e rifugiati (respingimenti compresi), è oggi la principale sfida dell’Unione. L’esplodere dei movimenti populisti che cinicamente la cavalcano  è sotto gli occhi di tutti.
Un fenomeno diffuso ovunque nell’Unione. Di fronte a un problema di questa portata, senza solidarietà e ripartizione d’oneri fra tutti rischia di saltare l’Europa e non saranno la moneta e la banca centrale a tenere insieme la fragile costruzione che oggi scricchiola sinistramente.Il tempo scorre ed è tiranno.
La crisi migratoria ci ricorda che occorre una nuova Europa. Basterebbe andare a Idomeni o a  Gevgelija, al confine della Macedonia con la Grecia ,dove ogni giorno transitano  migliaia di profughi provenienti da Afghanistan, Iraq e Siria,seguendo la “Western Balkan route”.
Non guardare quelle persone, chiudendo gli occhi, non è più possibile. E guardandole, non si può chiudere il cuore o nascondere la nostra coscienza di liberi cittadini europei.

 Marco Travaglini

“Compagni”, il libro in cui rivive la storia dei Pajetta

compagni pajettaS’intitola “ Compagni” il libro scritto da Elvira Pajetta , pubblicato dall’editore Macchione . Il racconto di una “giovinezza tenace” e coraggiosa, vissuta nel desiderio di una libertànegata dal fascismo e nell’impegno politico comunista, un riferimento ideale mai venuto meno nella famiglia Pajetta e incarnato nei giovani Gian Carlo, Giuliano e Gaspare, i tre figli di Elvira Berrini (la nonna dell’autrice) e Carlo Pajetta, avvocato del banco San Paolo di Torino, emarginato per non aver voluto prendere la tessera del Partito nazionale fascista.
A loro si aggiunge il ritratto, al tempo stesso forte e delicato, della madre di Elvira, Claudia Banchieri. “ Come si poteva tenere vivo nel ricordo quel mondo di persone generose, attive che avevano ispirato la loro vita a ideali forti e vi erano rimaste sempre coerenti?”, scrive Elvira Pajetta. Aggiungendo: “Questi fogli rappresentano i giorni di un calendario che per me era necessario comporre”.
Quella raccontata in “Compagni” è una storia intima e pubblica allo stesso tempo che si gioca su più scenari. Sullo sfondo ci sono la Francia, pronta ad accogliere i tanti rifugiati politici italiani, la guerra civile in Spagna, l‘Unione Sovietica e l‘Italia di Benito Mussolini.
Una storia che in parte si svolge anche a Taino, in provincia di Varese, sulla sponda lombarda del lago Maggiore, dove Elvira Berrini e Carlo Pajetta hanno abitato fin dagli anni ’20 e luogo che terrà a battesimo la militanza comunista dell’adolescente Giuliano. Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale mise a dura prova i destini dei giovani Pajetta. Giuliano ,che si trovava Oltralpe, venne arrestato dai gendarmi francesi e trasferito, dopo la condanna, al carcere di Nimes da dove evase con un’azione degna di un romanzo di Dumas.
La figlia Elvira ripercorre molti anni dopo lo stesso cammino fatto dal padre verso l’Italia, un vero pellegrinaggio dove antiche ferite si riaprono per far scorrere la storia. Gaspare e il cugino Piero ( Nedo) cadono in combattimento: il primo il 13 febbraio del ’44 , al Cortavolo di Megolo, con altri undici partigiani guidati dal Capitano Beltrami ; il secondo un mese dopo in uno scontro in montagna con i fascisti. A sua volta Giuliano, dopo essere rientrato in Italia per partecipare alla Resistenza, conoscerà sia il carcere di San Vittore che il lager di Mauthausen, dove verranno internati migliaia di italiani.Nel racconto di Elvira c’è posto anche per molto altro: la felicità del 25 Aprile, giorno della liberazione dall’occupazione nazifascista, l’impegno di Giuliano Pajetta e del figlio Gian Carlo nel Pci del dopoguerraaccanto a Enrico Berlinguer, i rapporti con l’Urss, i fatti tragici di Ungheria, i ricordi di Roma e Firenze. Belle foto, in parte inedite, e un nutrito numero di documenti testimoniano tutti questi passaggi pubblici e privati. Un lavoro lungo, non facile, durato ben otto anni. “Negli ultimi anni tutto il mio mondo si era modificato”, dice Elvira Pajetta. “ Molte cose erano sparite del tutto e molte avevano cambiato posto o dimensione. Mio padre Giulianoera morto nel 1988. Il muro di Berlino, smantellato nell’anno successivo, era diventato un monumento alla Germania unificata. Il Partito Comunista Italiano, dove avevo abitato da sempre, aveva cambiato nome e ora avrebbe dovuto cambiare forma. Mi rendevo conto, certo, che da vent’anni le crepe nei muri di “casa mia” erano diventate sempre più visibili. La mia famiglia, “I Pajetta”, non era più quella che, come in un disegno infantile, mi ero tenuta dentro per tanto tempo: mia nonna Elvira e i suoi tre figli, Giancarlo, Giuliano e Gaspare, i comunisti. Raccontarla era necessario”.

Marco Travaglini

“Nelly” e le altre

Nelly
Nelly

S’è spenta, nei giorni scorsi, Nella Galavotti, la partigiana “Nelly” che, durante la Resistenza, non ancora ventenne, combatté nella Brigata Valgrande Martire comandata da Mario Muneghina, il “capitano Mario”.
Il ricordo di lei si accompagna a quello delle donne il cui contributo alla Lotta di Liberazione è stato importante non solo numericamente, ma per le conseguenze, culturali e sociali prima e politiche poi, che ne scaturirono.
L’apporto femminile fu massiccio sin dai primi momenti della lotta partigiana arrivando fino agli ultimi giorni dell’aprile 1945, con la completa liberazione del Paese.
Non è possibile citare cifre che descrivano esattamente quante donne aderirono e si sacrificarono per la Resistenza perché molte di loro, appena conclusa la lotta, ritornarono in pieno alla loro vita familiare e di lavoro, scegliendo l’anonimato.
Stando però ai calcoli di esperti militari si può affermare che le donne che furono impegnate in compiti ausiliari nella Resistenza italiana non furono meno di un milione, mentre, secondo le statistiche ufficiali, le “partigiane combattenti” furono circa 35 mila. Un dato considerevole, secondo il quale ben il venti per cento dei combattenti furono donne.
I ruoli che ricoprirono furono molteplici: dalla partecipazione alle agitazioni nelle piazze alla preziosa e pericolosa attività delle “staffette”, dalla cura e dal rifocillamento di feriti e sbandati alla raccolta di armi, munizioni e indumenti e, infine, alla dura e spesso sanguinosa lotta sulle montagne.
Le donne che parteciparono alla Resistenza, fecero parte anche di organizzazioni come i Gruppi di Azione Patriottica (GAP) e le Squadre di Azione Patriottica (SAP) che agivano nelle città e ,inoltre, fondarono i Gruppi di Difesa della Donna, “aperti a tutte le donne di ogni ceto sociale e di ogni fede politica o religiosa, che volessero partecipare all’opera di liberazione della patria e lottare per la propria emancipazione“.
Così, le donne irruppero sulla scena e scelsero da che parte stare diventando soggetti attivi dei cambiamenti storici. Conquistarono il diritto al voto e lo esercitarono per la prima volta alle elezioni politiche del 2 giugno 1946 per eleggere l’Assemblea Costituente e scegliere con il referendum se l’Italia dovesse rimanere una monarchia o divenire, come accadde, una repubblica.
L’esperienza resistenziale di Nelly e di tutte quelle come lei, è stata determinante per le donne italiane che, dal ’45, si sono battute instancabilmente per il loro coinvolgimento attivo nella vita politica del paese, conquistando diritti legali, economici e politici verso la parità.
Per queste e per mille altre ragioni il debito di riconoscenza che dobbiamo a  Nelly, alle donne e agli uomini che fecero la Resistenza è grande.

Marco Travaglini

Bosnia,l’Europa di mezzo…..l’ultimo libro di Marco Travaglini

travaglini marcoBosnia,l’Europa di mezzo.Viaggio tra guerra e pace, tra Oriente e Occidente” è il titolo dell’ultimo libro di Marco Travaglini, da qualche giorno nelle librerie.
Il volume è edito da Infinito, con la prefazione degli storici Gianni Oliva  e Donatella Sasso. Infinito edizioni è ormai la realtà editoriale italiana più attenta ai Balcani, e in particolare alla Bosnia Erzegovina. Per dimostrarlo, la casa editrice ha preparato un autunno/inverno ad altissimo livello per i lettori appassionati di vicende balcaniche e per chi voglia finalmente avvicinarsi all’argomento.
Il libro di Travaglini è il primo di questa nuova fase. Vent’anni fa finiva la guerra in Bosnia, lasciando cumuli di macerie e tanti, troppi morti. Questo reportage racconta la pace che ha fatto seguito alla guerra in Bosnia Erzegovina. Una pace imperfetta, fatta di prevaricazione e di giustizia negata, di dolore e di speranze strappate via dal disastro di una quotidianità spesso fatta di umiliazioni e privazioni.
Ma narra anche la vicenda di tante persone e la storia di un innamoramento, quello dell’autore per la Bosnia, e di un profondo desiderio di capire non solo le ragioni del conflitto, ma anche la forza enorme che permette al popolo bosniaco di non scomparire.
Marco Travaglini ha scritto un taccuino di viaggio pieno di partecipazione emotiva, attento a cogliere i luoghi, i personaggi, le storie individuali e collettive; ma ha anche scritto un libro pieno di spunti per riflettere sul presente, per comprendere che ogni crisi ha le sue specificità e, insieme, i suoi denominatori comuni. Un bel modo – secondo Gianni Oliva, uno dei più autorevoli studiosi del Novecento –  per fare ‘storia del passato’ facendo contemporaneamente ‘educazione al presente’”. Anche per Donatella Sasso, scrittrice e storica dell’Istituto Salvemini “questo libro costituisce una narrazione unitaria in grado di raccordare il tempo di guerra con il presente, gettando semi di speranza e rinsaldando frammenti di memoria”. Discorso importante perché la guerra di Bosnia ci ha lasciato tante lezioni ma due, attualissime, vanno ricordate. La prima riguarda l’atteggiamento della comunità internazionale: la pace non si mantiene inviando truppe di peace enforcing a occupare un Paese in fiamme; la pace si mantiene intervenendo prima dell’irreparabile, aiutando i Paesi in difficoltà a risollevarsi, disinnescando le tensioni che generano conflitti. La seconda lezione è la propaganda.
Va prestata grande attenzione alle parole e al loro uso, soprattutto da parte di chi ha responsabilità e visibilità pubblica. Gli odi etnici hanno trovato alimento nell’uso disinvolto delle accuse e delle ingiurie. Ci sono analogie inquietanti con i linguaggi dei nostri giornali. Anche per questo “Bosnia, l’Europa di mezzo” è un libro utile, importante che, oltre a  far conoscere e riflettere, aiuta a non dimenticare che vent’anni fa tornavano nel cuore dell’Europa, a qualche chilometro da casa nostra, i campi di concentramento, gli assedi alle città, il genocidio e i profughi. Molte domande sollevate da quelle guerre sono rimaste aperte, e molte lezioni rimangono ancora da capire. Perché le guerre in ex-Jugoslavia non parlavano del loro passato nei Balcani ma del nostro futuro in Europa.

Nagasaki, 9 agosto 1945:il giorno in cui il sole cadde nuovamente sulla terra

nakasakiNagasaki si estende al centro di una lunga baia, che rappresenta il miglior porto naturale dell’isola di Kyūshū, nel sud del Giappone. Il suo nome, letteralmente, significa  “lunga penisola”.
Il 9 agosto del 1945 diventò il secondo obiettivo su cui sganciare una bomba atomica. Il bombardiere B-29 Superfortress  dell’aviazione americana (esemplare numero 44-27297, ribattezzato “Bockscar”) portava in pancia “Fat Man” (in italiano “ciccione“). Quel nomignolo era stato assegnato alla Model 1561 (Mk.2), la terza bomba atomica approntata nell’ambito del Progetto Manhattan, il secondo e ultimo ordigno nucleare mai adoperato in combattimento.
In origine non era previsto che la città di Nagasaki finisse nel mirino dell’aereo pilotato dal  maggiore Charles W. Sweeney. Era, come si usa dire, “la seconda scelta”.
L’obiettivo primario era la città di Kokura, non distante da Fukuoka, nella parte settentrionale dell’isola di Kyūshū, sede di un grande deposito di munizioni dell’esercito giapponese.  Ma il cielo era coperto di nubi e la visuale pessima. Così  si optò per l’alternativa e questa portava il nome di Nagasaki. Così la bomba finì  sulle acciaierie Mitsubishi situate poco fuori quella città.
Fat Man” esplose a un’altezza di mezzo chilometro sulla città e sviluppò una potenza di 25 chilotoni, quasi il doppio di “Little Boy” , l’ordigno sganciato dal bombardiere “Enola Gay” che esplose tre giorni prima su Hiroshima.
Ma, dato che Nagasaki era costruita su un terreno collinoso, il numero di morti fu inferiore a quelli prodotti dalla prima bomba. A Hiroshima morirono istantaneamente per l’esplosione nucleare tra le 66.000 e le 78.000 persone e una cifra simile rimase ferita.
Per due volte, in tre giorni, il sole cadde sulla terra.
Un numero elevato di persone persero la vita nei mesi e negli anni successivi a causa delle radiazioni e molte donne incinte persero i loro figli o diedero alla luce bambini deformi.
Il numero totale degli abitanti uccisi a Nagasaki venne valutato attorno alle 80.000 persone, incluse quelle esposte alle radiazioni nei mesi seguenti. La sorte volle che tra le persone presenti a Nagasaki quel 9 agosto di settant’anni fa  vi fossero anche un ristretto numero di sopravvissuti di Hiroshima.
Entrambe città furono rase al suolo. Un disastro che costrinse, meno di una settimana dopo, il 15 agosto 1945, l’imperatore del Giappone Hirohito a presentare agli alleati la resa incondizionata.
Con la firma dell’armistizio, il 2 settembre del 1945, si concluse di fatto il secondo conflitto mondiale. Settant’anni dopo i bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki, due ospedali della Croce Rossa giapponese stanno curando migliaia di persone che continuano a patire le conseguenze di questi attacchi. Secondo fonti ufficiali della Federazione internazionale della Croce Rossa e della Mezza Luna Rossa questi ospedali – nel 2014 – si sono presi cura di 4657 vittime dell’esplosione a Hiroshima e 6030 di quella di Nagasaki. Si calcola inoltre che diverse migliaia di queste persone continueranno ad avere necessità di cure, nei prossimi anni, per le problematiche legate alle radiazioni.
In totale, tra i due centri sanitari sono stati ospedalizzati 2,6 milioni di persone per le conseguenze legate alle radiazioni. Il 63 % dei decessi registrati nell’ospedale di Hiroshima, in funzione dal 1956, sono stati causati da diversi tipi di cancro. Tra questi, il 20 % per cancro al polmone, il 18 % per cancro allo stomaco, il 14 % per neoplasie al fegato, il 7 % per cancro all’intestino e un altro 6 % dai linfomi maligni.
Nell’ospedale di Nagasaki, che cominciò a funzionare nel 1969, i morti per cancro rappresentano, fino a marzo dell’anno scorso, il 56% del totale. Secondo la Croce Rossa, l’incidenza di leucemia tra i sopravvissuti dei bombardamenti fu di quattro o cinque volte superiore rispetto alle persone non esposte alle radiazioni durante la prima decade, e diminuì successivamente. Una contabilità tremenda, eredità diretta di quello che fu l’inizio dell’era del terrore nucleare.
Settanta anni dopo, la memoria di ciò che è stato deve indurre a far sì che nessuno debba più scrivere, di fronte alle atrocità della guerra, quello che il copilota, capitano Robert A. Lewis , annotò sul diario di bordo del bombardiere “Enola Gay” dopo aver verificato con un binocolo gli effetti della bomba sganciata su Hiroshima: “My God what have we done?”, ““Dio mio, cosa abbiamo fatto?”.

Marco Travaglini

Una nuova sinistra, una nuova Europa

bandiera germania grecia europaDalla vicenda greca ad uscirne male, umiliata e ferita è l’idea stessa d’Europa.
La Grecia resta nell`euro, ma è sotto gli occhi di tutti la crisi di una unione monetaria ( e per nulla politica) incapace di ridurre gli enormi gap di competitività al suo interno. Sono emerse tutte le ipocrisie di una integrazione dominata dagli interessi nazionali, dalla speculazione e da un dramma umanitario con pochi precedenti in tempo di pace.
La Germania ha di fatto imposto delle condizioni per la Grecia che, come sottolinea l’economista francese Fitoussi, “significano ancora sofferenza per il popolo greco”. In particolare per quanto riguarda le privatizzazioni che dovranno essere decise perché è noto che la vendita di beni pubblici in un contesto economico come quello attuale della Grecia si avvicina ad una svendita. E nessuno può dire di non vedere che questo è il momento meno opportuno per fare un’operazione di questo tipo.
A questo accordo, approvato con sofferenza, si è arrivati essenzialmente per la posizione della Germania e degli altri paesi del nord e dell’est che hanno fatto di tutto per umiliare la Grecia e un’idea diversa dell’Europa, opposta all’agenda dell’austerità che ha prodotto danni gravissimi e un vero e proprio disastro sociale per le classi meno abbienti.
Come sostenne l’allora ministro delle Finanze di Atene Yanis Varoufakis, Angela Merkel poteva fare un gesto sullo stile del “Discorso della speranza’” che il 6 settembre 1946 pronunciò a Stoccarda il segretario di Stato Usa James F. Byrnes, per dare la possibilità alla Germania “di immaginare il recupero, la crescita e un ritorno alla normalità” dopo la seconda guerra mondiale.
Quel discorso fu la chiave della ripresa economica tedesca, “facilitata dal piano Marshall, il condono del debito nel 1953 patrocinato dagli Usa e dall’arrivo di lavoratori immigrati da Italia, Jugoslavia e Grecia”. Sette decenni dopo era la Grecia, ad aver bisogno di una simile possibilità e poteva essere l’occasione per suggerire un nuovo approccio all’integrazione europea.
Ma la generosità della Germania non si è vista. Bravi a cogliere quella degli altri ma non a restituirla, dimostrando che l’avidità dei creditori è senza memoria.
La più grande delusione riguarda però il socialismo europeo. Afono e privo di leadership all`altezza. Hollande ha avuto almeno il merito di provarci. Ma il Pse, questo Pse andrebbe rifondato. Così com`è assomiglia ad una burocrazia senz`anima, mentre fuori dal suo perimetro cresce una sinistra antiausterità, portatrice di una voglia di cambiamento che sarebbe una sciagura non vedere, ascoltare, coinvolgere.
Bisogna affrontare i nodi di fondo della crisi europea: parametri ottusi, carenza di investimenti, debiti e interessi che strangolano la crescita. Bisogna risvegliare il sogno degli Stati Uniti d’Europa, ma occorre ciò che sino ad ora è mancato: forza e capacità. La sinistra socialista sarà capace di allargare il campo? Serve una svolta storica nel modo di concepire integrazione, economia, civiltà. Se si riduce l`Europa alla sola moneta, quella diventa un`ideologia, per di più pericolosa.
La sinistra è all’altezza di questa sfida? Se non lo sarà il vuoto verrà riempito sempre di più dai rapporti di forza dettati dalla Cancelliera tedesca e dal suo ministro delle finanze. Tutta la retorica sull’integrazione politica si è arenata davanti alla prima vera crisi dell’Eurozona e dell’architettura di Maastricht. In questo la sinistra greca ha reso evidente che chiunque tocca i dogmi dell’austerità viene vissuto come un corpo estraneo e da piegare. Quello consumato a Bruxelles è stato un braccio di ferro tutto politico e in questo senso illuminante, come ha raccontato bene Varoufakis. Se non si pone riparo, se non si alza la testa dalla piccola contabilità del quotidiano, si rischia di finir male.
E alla parabola greca si aggiunge il rifiuto nordico a redistribuire una quota di migranti e profughi, mentre alcuni alzano – e non metaforicamente- dei muri come in Ungheria.
E’ qui che l’Europa della retorica frana: nel venir meno, tanto sul piano monetario che umanitario, di quei trasferimenti solidali e illuminati senza i quali prevale l’egoismo. Da qui una nuova sinistra deve ripartire se non vogliamo assistere al trionfo di nuovi “muri”, fisici e morali.
Marco Travaglini