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La Grecia c’insegna che l’economia non può essere asservita ai capricci della finanza 

Abituati a pensare in dollari a spendere in euro, al pensiero della finanza globalizzata , si è  perduto il senso della socialità e della dignità.
Ciò che accade con la Grecia è paradossale e l’Europa sta mostrando un volto arcigno, ottuso, socialmente sbagliato, protesa com’è – attraverso l’austerità e fallimentari ricette neoliberiste – a promuovere povertà e disoccupazione , marginalizzando i  problemi sociali , considerati di scarso peso di fronte ai diktat dei mercati.
Ci sono voluti Tsipras, Varoufakis e Tsakalotos, rappresentanti del popolo greco, per far comprendere che l’economia non è asservita ai capricci della finanza, né che i creditori esterni possano dettare le politiche di un Paese secondo i loro “comandamenti”.
A partire dall’algida, grigia e cinica  burocrate Lagarde, Questa  signora si è infuriata e non poco, per le misure adottate dal primo ministro ellenico, il quale ha annunciato un piano umanitario per famiglie in forte dissesto economico, che soffrono di carenza di fornitura elettrica a causa delle bollette scadute e riescono a malapena ( e nemmeno tutti) ad accedere ad un pasto giornaliero. Duecento milioni di euro, che invece di collocare nei forzieri dei creditori, Syriza ha destinato alle persone più deboli di un paese fiaccato dalla crisi, ridotto all’osso nelle riserve finanziarie, ma orgoglioso della propria dignità.
Ovviamente questo non interessa un fico secco agli organismi finanziari, che pretendono soltanto i propri soldi, imponendo misure capestro; come l’aumento dell’Iva, una nuova stretta sulle pensioni, ulteriori privatizzazioni, privatizzazioni.
La stessa medicina sbagliata e velenosa che ha messo in ginocchio la Grecia e ha prodotto danni in tutta Europa. Tsipras ha difeso le sue proposte ed ha indetto un referendum popolare per chiedere ai greci se le misure della Troika vadano adottate, oppure no.
Da mesi i negoziati tra Bruxelles e la Grecia vengono condotti con l’unico obiettivo di piegare Atene ad accettare “quelle” proposte. La resistenza greca, sostenuta dalle analisi e dai pareri di molti economisti che ritengono le proposte del ministero Varoufakis del tutto sostenibili e corrette, sta offrendo  una lezione a questa Europa dove prevalgono chiusure, egoismi e sudditanza al logiche finanziarie sbagliate, squarciando il velo dell’ipocrisia.
Atene ha chiesto, ragionevolmente, di poter riprendere con le sue forze un cammino di crescita e di onorare i suoi debiti anche se in un futuro forse un po’ più lontano del previsto. Per questo è assurdo pretendere, per esempio, che il surplus di bilancio sia accantonato invece che essere investito. In gioco qui c’è non solo il futuro della Grecia, ma anche dell’Europa e della democrazia.
Ad un nuovo governo deve essere dato il tempo di attuare il proprio piano economico, segnando una svolta delal quale beneficerebbero anche tutti gli altri Paesi che sono stati distrutti dalla follia dell’austerity che ha aggravato oltre ogni misura una crisi che poteva essere risolta diversamente. In passato, Varoufakis ha paragonato la Grecia al «canarino nella miniera», che con la sua morte avvisa i minatori dei gas pericolosi. Possibile che non si colga tutto questo?
Le domande che sorgono spontanee sono molte. Perché i governi progressisti europei non fanno sentire al loro voce? Perché i greci sono lasciati soli in questa lotta per un’ Europa più giusta e solidale? Possibile che abbiano perso la voce, siano diventati afoni?
Non colgono il fatto che in ballo c’è proprio il destino di un continente, di un progetto unitario, di una politica che non può essere solo austerità e sacrificio per i più deboli?
Si critica un popolo perché ha avuto sussulto di dignità, perché il suo ministro delle finanze ha citato una delle più famose poesie  del gallese Dylan Thomas, dichiarando come “la democrazia greca ha scelto oggi di smettere di andare docile nella notte. La democrazia greca si è decisa ad arrabbiarsi contro il morire della luce” ?  La Francia e l’Italia non hanno nulla da dire? La sinistra europea è forse distratta?
Questa vicenda rischia di finir male per tutti se non sì metterà fine all’arroganza liberista che continua a macinare risorse, vite, lavoro e speranze di tanti per l’interesse e il privilegio di pochi. Un tempo ci s’indignava e si scendeva in piazza per molto meno. Per quanto riguarda molti, compreso chi scrive, la sinistra che guarda con sguardo diritto verso il futuro è quella di Tsipras, Varoufakis e Tsakalotos. Chi, a sinistra (?) lo nega o tace, è solo capace a fare chiacchiere da tè e ha scelto di abbassare la testa. Non saremo loro complici, non avranno il nostro consenso. Come si diceva nel maggio francese: ” Ce n’est qu’un début continuons le combat!

Marco Travaglini

Srebrenica, vent’anni dopo

Srebrenica TravagliniTutti noi sappiamo dov’eravamo l’11 settembre 2001, quando arrivò la notizia dell’assalto alle Torri gemelle.
Pochissimi ricordano dov’erano l’11 luglio 1995, quando cadde Srebrenica e iniziò l’ultimo massacro del secolo.
Fu il triplo dei morti rispetto a New York, ma quasi nessuno se ne accorse. Non c’erano immagini, in quei giorni, in tv. Srebrenica, un buco tra le montagne della Bosnia nord-orientale dal nome impronunciabile.
L’Europa era al mare, la Bosnia non faceva notizia, la guerra stava finendo. E poi, a che pro sapere? Erano tutti complici. L’Europa, le Nazioni Unite, la Nato. Si era lasciato che il massacro avvenisse. Oltre diecimila musulmani bosniaci maschi, tra i 12 e i 76 anni,  vennero catturati, torturati, uccisi e sepolti in fosse comuni dalle forze ultranazionaliste serbo-bosniache e dai paramilitari serbi. Tutto avvenne in una decina di giorni, dopo che la città, assediata per tre anni e mezzo, dall’inizio del conflitto,  il 10 luglio era caduta nelle mani del generale Ratko Mladić. Il 19 aprile 2004 il Tribunale internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia (Tpi) ha definito quello di Srebrenica “genocidio”, il primo in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale. Ma da quel momento, tra omissioni e rinvii, si è fatto poco.
Sono passati vent’anni. Ora,sappiamo. Ma si tende a rimuovere,a  dimenticare.
Restano le tombe, il ricordo di uccisioni, saccheggi, violenze, torture, sequestri, detenzione illegale e sterminio.
Ci sarà mai giustizia? Quattro lustri dopo, rimane un profondo senso di ingiustizia e di impotenza nei sopravvissuti e un pericoloso messaggio di impunità per i carnefici di allora, in buona parte ancora a piede libero e considerati da alcuni persino degli “eroi”. Noi ci sentiamo impegnati a raccontare ciò che è stato fatto a Srebrenica affinché il grido delle madri, mogli e figlie di chi venne ucciso nella città “ dell’argento e del sangue” non resti inascoltato.
Da anni , queste donne coraggiose, durante le loro proteste non violente, che si svolgono l’11 di ogni mese a Tuzla pronunciano una parola: “Odgovornost”, responsabilità.
Chiedono verità e giustizia, accertamento delle responsabilità,  condanne per i criminali.E’ un modo per offrire voce e forza a queste donne. Uno dei più grandi intellettuali balcanici, Predrag Matvejevic, scrisse: “I tragici fatti dei Balcani continuano, non si esauriscono nel ricordo come avviene per altri. Chi li ha vissuti, chi ne è stato vittima, non li dimentica facilmente. Chi per tanto tempo è stato immerso in essi non può cancellarli dalla memoria”.
Parole amare e sagge. Parole da ascoltare.

 Marco Travaglini

Dopo l’Italicum, il Pd e la sinistra

Marco Travaglini
Marco Travaglini

Viviamo un periodo difficile per tutti, certamente di più per chi ha scelto di non votare la fiducia al governo sulla legge elettorale.
Non si tratta della “sinistra masochista”, espressione che lascia il tempo che trova e che qualifica ( non bene) chi l’ha pronunciata. Semmai si tratta di donne e uomini che  vogliono dare una mano per un coraggio maggiore nel fare leggi buone, dare un senso al cambiamento del paese e affrontare le tante emergenze davanti a noi. A cominciare dalla tragedia del Mediterraneo.
Persino l’Europa con il presidente della Commissione, Juncker, ha dichiarato che sospendere Mare Nostrum è stato un errore. Si potrebbe dire che è un riconoscimento tardivo e non restituirà la vita a qualche migliaio di donne e uomini disperati.
C’è il Mediterraneo, cimitero a cielo aperto, ma ci sono anche i problemi di milioni di famiglie che non reggono l’urto della crisi. I dati dell’economia reale non spingono all’ottimismo e questo rende ancora più urgente il varo di un provvedimento mirato contro la povertà e per una integrazione al reddito di chi è rimasto più solo e più indietro.
In questi giorni  c’è anche l’emergenza scuola con una riforma che va discussa e rivista in tante sue parti. Ma è chiaro che il voto sull’Italicum ha lasciato delle ferite ed è giusto tornarci sopra. La minoranza del Pd ha sempre detto che le riforme andavano fatte e nei tempi previsti.
Fino dal giorno successivo al “patto del Nazareno” si è sostenuto che era giusto cercare l’accordo con una parte almeno delle opposizioni (quella disponibile) e che però quell’accordo non poteva impedire al Parlamento di discutere e migliorare le riforme anche come garanzia di una condivisione larga delle scelte che si andavano a fare.
Purtroppo, e per mesi, la risposta è stata che nulla di quelle riforme (della Costituzione e della legge elettorale) si poteva cambiare senza un accordo preventivo con Berlusconi. Il risultato è stato che il Parlamento ha finito col ratificare, passo dopo passo, decisioni e scelte assunte altrove.
Questo fino alla rottura del patto con Forza Italia quando abbiamo pensato che fosse finalmente possibile trovare i contrappesi dovuti per una riforma destinata a cambiare la nostra forma di governo con uno slittamento del potere legislativo dal Parlamento all’Esecutivo. Invece, ancora una volta si è risposto che nulla si poteva modificare e che la legge elettorale andava approvata com’era.
Sino all’ultimo dalla minoranza è venuta una dimostrazione di lealtà, fino al punto di aver garantito il numero legale nell’Aula della Camera la notte in cui tutte le opposizioni hanno abbandonato i lavori sulla riforma costituzionale. In quelle ore la minoranza ha rispettato con rigore la disciplina del gruppo respingendo anche gli emendamenti che si condividevano.
Poi, nelle settimane successive, c’è stato chi, come Gianni Cuperlo e tanti altri, si sono sgolati nel provare a trovare il giusto equilibrio correggendo la riforma del Senato dal momento che ad oggi non siamo in presenza né di una vera Camera delle garanzie e neppure di una coerente Camera delle autonomie.
Modificando la riforma costituzionale, si sosteneva, era possibile compensare i limiti e le storture dell’Italicum (che a quel punto si sarebbe potuto votare senza modifiche come richiesto dal premier). Si sarebbe ottenuto in un colpo solo di migliorare le riforme, unire il Pd e allargare lo schieramento a favore della nuova Costituzione e della legge elettorale.
Si è fatta la scelta opposta: mettere la fiducia sull’Italicum nonostante lo strappo istituzionale che questa scelta comporta e approvare la nuova legge fondamentale della rappresentanza con i soli voti della maggioranza di governo, neppure a ranghi completi e con un dissenso dentro il Pd.
E’ legittimo continuare a chiedere il perché. Perché si è voluto questo sbrego della prassi? Perché si è scelto di ridurre il campo delle forze a sostegno delle riforme? Non siamo sempre stati noi (il Pd e Renzi per primo) a dire che le regole si scrivono assieme? Non aver partecipato al voto di fiducia è stata la risposta che in 38 deputati hanno dato a questo strappo. Sono pochi? Sono molti? Ciascuno può e deve giudicare, magari chiedendosi cosa avrebbe fatto al loro posto ( per quanto mi riguarda, avrei fatto esattamente come loro).
Poche certezze e molti dubbi sono legittimi, tanto più in un passaggio così complesso e carico di significato. Però tutti – anche la maggioranza che oggi guida il Pd – forse dovrebbero chiedersi cosa vuol dire la scelta di non partecipare al voto da parte di persone che appartengono a generazioni e storie diverse. Cosa significa votare contro le scelte, ritenute sbagliate, della propria parte.
Qual è lo strappo? Quello di chi reagisce a una decisione (la fiducia) ingiustificabile anche perché non c’era da parte delle opposizioni alcuna volontà di usare le armi dell’ostruzionismo? O quello di chi ha sottratto al Parlamento il diritto di discutere ed eventualmente emendare una legge che secondo molti conserva ancora gravi limiti? Alcune volte dire dei No costa più di un Sì. Ma è necessario, per non scadere nell’ipocrisia. E adesso? Si rimane nel Pd? Si guarda altrove?
La prima risposta, da parte dei più,  è che si resta nel Pd. Questo è il nostro partito e anche se oggi non è ciò che abbiamo pensato e che avremmo voluto. Dunque, in molti sceglieranno di continuare a battersi dentro. Ma anche quelli che hanno fatto o faranno la scelta di lasciare, meritano rispetto.
Per questo è giusto discutere su cosa rischiamo di diventare e su come correggere un profilo e uno stile che ci stanno allontanando da tante e tanti che non capiscono più il senso di una forza dove nessuno si agita se una parte degli iscritti e dei militanti se ne va e pochi si interrogano se alle primarie di Agrigento vince un esponente vicino a Forza Italia, se si fanno alleanze in Campania con personaggi dubbi per poi dire che sono “impresentabili”.
Avere diverse idee è una ricchezza e circondarsi di “fedeli” non è mai una buona scelta. Per questo molti sono ancora in campo. Al governo e al Pd la richiesta è non solo di “dire” ma di “fare” delle cose giuste: per i profughi in mare, i poveri senza rispetto, chi lavora senza diritti e chi un lavoro lo cerca senza garanzie. Si chiede al governo più coraggio sui diritti civili, per le donne e sulla qualità della democrazia.
E’ difficile, molto difficile ma, per chi se la sente, è ancora possibile ( necessario lo è sempre stato) lavorare per tutto questo sapendo che un Pd dove la sinistra, i suoi valori e principi, non sia di casa, semplicemente non sarebbe più il Pd.

Marco Travaglini

Il “secolo breve” e il centenario della Prima guerra mondiale

sarajevo biblioteca lapide guerraIl centenario della Prima guerra mondiale ( che ,per noi italiani, coincide con il 24 maggio del 1915, quasi un anno dopo lo scoppio del conflitto ) è un’occasione per guardare al Novecento, il secolo che ha prodotto un numero di morti in guerra tre volte superiore a quello complessivo delle vittime di tutti i conflitti combattuti nei diciannove secoli che ci separano dall’inizio dell’era cristiana. Basterebbe scorrere le cifre della prima guerra mondiale per comprendere come il “secolo breve” si presenta con un salto di qualità nell’esercizio della guerra: quasi dieci milioni di soldati mandati al massacro, ventuno milioni i feriti.
Fra le popolazioni civili quasi un milione di persone morirono direttamente a causa delle operazioni militari e circa sei milioni furono le vittime per quelli che oggi verrebbero definiti “effetti collaterali”, ovvero carestie e carenze di generi alimentari, malattie ed epidemie, nonché per le persecuzioni razziali scatenatesi durante la guerra. Numeri impressionanti che la retorica ha sempre cercato di esorcizzare o di nascondere,  in nome dei esasperati patriottismi e di quei  “sacri confini” che un secolo dopo sono praticamente scomparsi, spazzati via dalla storia.
E’ incontestabile che il Novecento sia stato “il secolo più cruento della storia”. Se non si riflette su questo, se non s’impara dalla storia, il passato non passa. Che cosa abbiamo (noi,tutti)  compreso delle tragedie del Novecento, del significato delle parole che campeggiavano all’ingresso di Auschwitz, dei sistemi concentrazionari che con la Shoah o l’Arcipelago Gulag hanno segnato il secolo scorso? E cosa ne pensiamo del loro riapparire sul finire del secolo con “la guerra dei dieci anni” nel cuore dell’Europa, in quei Balcani che secondo Winston Churchill  “contengono più storia di quanta ne possano consumare”?
Tutti noi sappiamo dov’eravamo l’11 settembre 2001, quando arrivò la notizia dell’assalto alle Torri gemelle. Pochissimi ricordano dov’erano l’11 luglio 1995, quando cadde Srebrenica e iniziò l’ultimo massacro del secolo. Fu il triplo dei morti rispetto a New York, ma quasi nessuno se ne accorse.
Non c’erano immagini, in quei giorni, in tv. “ Srebrenica, che roba era? Un buco tra le montagne dal nome impronunciabile – scrive Paolo Rumiz -; l’Europa era al mare, la Bosnia non faceva notizia, la guerra stava finendo. E poi, a che pro sapere? Eravamo complici. L’Europa, le Nazioni Unite, la Nato. Avevamo lasciato che il massacro avvenisse”. Sono passati vent’anni. Ora,sappiamo. Ma si tende a rimuovere,a  dimenticare. Per questo il centenario della prima guerra mondiale è un’occasione da non sprecare per interrogarsi, riflettere, imparare. Ponendoci le domande giuste.
Ad esempio, perché il Novecento nasce e muore a Sarajevo? Porre l’attenzione su questa domanda è fondamentale per comprendere almeno in parte quel che è accaduto negli anni ’90 ma anche nel decennio successivo intorno al contraddittorio concetto di “scontro di civiltà”. Sarajevo è, se sappiamo vedere, il cuore dell’Europa e più precisamente il punto d’incontro fra oriente e occidente nel cuore dell’Europa.
Per meglio comprendere il ruolo che nella storia bisognerebbe scavare molto indietro di quel fatidico 28 giugno 1914 quando nelle strade di Sarajevo un gruppo di giovani irredentisti decise di attentare alla vita dell’erede al trono del secondo impero d’Europa. Ma è sufficiente immaginare cosa accadde quasi ottant’anni dopo, dopo due guerre mondiali.
In quei giorni dell’assedio più lungo della storia moderna, a Sarajevo  non bruciava solo la Viječnica, la vecchia biblioteca: andava in fumo anche un’idea di Europa come incontro fra oriente e occidente. Mentre bruciava l’Europa noi volgevamo lo sguardo altrove.
Da questa parte del mare, guardavamo distrattamente la tragedia che si consumava in quella città, senza capire che ad essere assediata era la storia, la cultura, un’idea dell’Europa. Eravamo noi. Del resto era proprio questo l’obiettivo degli assedianti. Le granate, le bombe incendiarie, non cadevano a caso ma miravano i simboli. Le guerre moderne non hanno come obiettivo la distruzione dell’esercito nemico, con il quale spesso ci si intende e si fanno affari, ma contro la popolazione civile, la storia, la cultura, le città. Con l’assedio di Sarajevo si parlò di “urbicidio”: la volontà non era di prendere una città della quale non sapevano che farsene, ma di tenerla sotto scacco di fronte al mondo intero per sfiancarne la resistenza ed il messaggio.
Così le biblioteche sono diventate obiettivi strategici perché, come i libri, gli edifici, le opere d’arte ci parlano della complessità, degli intrecci, dell’Europa come insieme di minoranze. Ecco cosa rappresentava Sarajevo! Un corpo estraneo al nazionalismo, alle identità urlate e usate come armi! Un corpo da offendere, colpire, estirpare per gli ultranazionalisti che hanno teorizzato la purezza, segnando nel sangue il Novecento. Vedere riapparire sul finire del Novecento i campi di concentramento e il concetto stesso di “scontro di civiltà” riempie di inquietudine. E anche oggi sembra di star seduti su di un barile di polvere da sparo, pronto ad esplodere fragorosamente.
Tutto ciò induce a pensare che se non siamo capaci di interrogarci sulla storia, questa verrà usata come una clava per sostenere che, in un mondo abitato a breve da nove miliardi di persone, lo spazio vitale sarà solo di qualcuno. Secondo il diritto naturale, dei più forti.

Marco Travaglini

La legge elettorale e noi

Marco Travaglini
Marco Travaglini

L’assemblea del gruppo Pd alla Camera ha approvato all’unanimità la linea del premier Matteo Renzisulla legge elettorale: avanti senza modifiche al testo.
Al momento del voto arrivato nella notte però, la minoranza non ha partecipato: su 310 componenti del gruppo, i sì sono stati 190. Il capogruppo alla Camera, Roberto Speranza, esprimendo le ragioni del dissenso, ha rimesso il suo mandato. Gianni Cuperlo a quel punto ha proposto una sospensione della riunione, proposta che è stata messa ai voti e bocciata a maggioranza. Ora, dopo il 25 aprile, si andrà in aula.
Credo sia opportuno fare alcune considerazioni. E’ vero che questa legge elettorale recepisce alcune richieste avanzate dalla minoranza oltre un anno fa. E  nessuno nega che una legeg elettorale vada approvata, e in fretta. Restano aperte però due questioni che non sono di lana caprina, più volte richiamate nella loro criticità anche da autorevoli giuristi e costituzionalisti di diverso orientamento.
Da un lato il fatto che avremo un Parlamento (tra Camera e Senato) composto per la maggioranza di “nominati” venendo meno a una delle raccomandazioni della Corte Costituzionale nella sentenza con cui ha bocciato il Porcellum.
Dall’altro l’assenza di apparentamento al ballottaggio che rischia concretamente di assegnare un premio di maggioranza smisurato e tale da invalidare il principio della rappresentatività (e anche su questo la Consulta ha speso parole chiare). Per fare un esempio, una forza che va al ballottaggio col 20% dei voti al primo turno potrebbe vincere il secondo turno e ottenere 35 punti di premio (in seggi), cosa che – come dicono esperti e studiosi – non esiste in alcuna democrazia.
Esistono anche altri aspetti critici ma basterebbe correggere queste due cose (aumentando il numero dei collegi e consentendo l’apparentamento) per ottenere questi risultati: si miglioreremmo la legge, allargheremmo il campo di forze che in Parlamento si schiererebbe a suo sostegno (coinvolgendo anche alcuni gruppi dell’opposizione), uniremmo tutto il Pd che oggi è diviso e accelereremmo il percorso delle altre riforme (superamento del bicameralismo e riforma del Titolo V).
L’alternativa qual è? Votare questa legge senza ritocco alcuno e praticamente da soli? Cioè con la sola maggioranza di governo (e neppure a ranghi completi), un dissenso evidente nel Pd e tutte (sottolineo, tutte) le opposizioni su una frontiera di critica aspra per il merito e il metodo. Ci conviene? Conviene al clima e alla qualità della nostra democrazia?

Si sente ripetere che toccare il testo attuale equivale a istradarlo su un binario morto. Ma perché mai? Si capirebbe questo argomento se le elezioni fossero alle porte, ma la legislatura scade nel 2018 e noi potremmo approvare la legge elettorale definitivamente entro alcuni mesi.
Accelerare e chiudere la pratica qui e ora (magari ponendo la questione di fiducia) sarebbe il contrario di ciò che abbiamo sempre detto, come Pd: che le regole si scrivono assieme e poi ci si divide sulla politica. In questo caso, invece, produrremmo una ferita destinata a durare nel tempo con l’effetto di avvelenare il clima dentro e fuori il Parlamento e di attivare nei partiti di opposizione uno spirito di rivalsa teso unicamente a “restituire” la forzatura alla prima occasione utile.
Si sprecano anche gli appelli alla disciplina di gruppo e di partito, ma perché contrapporre quel principio (che, per inciso, dovrebbe valere sempre e per tutti: per dire anche quando la maggioranza dell’epoca decise di votare Franco Marini presidente della Repubblica. O no?) alla necessità di discutere sino all’ultimo le regole fondamentali della rappresentanza, della Costituzione, della competizione per il governo, dei pesi e contrappesi fondamentali in una democrazia matura?
In modo serio c’è chi ha provato e sta provando a fare questo. E’ giusto? E’ sbagliato? Quello di cui sono convinto è che sia il modo più giusto e onesto per aiutare il partito a fare delle buone scelte. Se non sarà possibile bisognerà prenderne atto e ognuno si assumerà le sue responsabilità. Questi, amici e compagni, sono i fatti. Il resto sono solo parole.

Marco Travaglini

Sinistradem Piemonte

Sbarchi nel mediterraneo:L’Unione Europea e il Governo italiano intervengano

Nessun ulteriore indugio: l’Europa torni subito a potenziare le operazioni di ricerca e soccorso nel mare che ci separa dalla Libia e dalle coste africane e l’Italia mobiliti di nuovo i mezzi della Marina Militare che tante vite hanno salvato con l’operazione Mare Nostrum. E’ il solo modo per impedire nuove tragedie.
Ancora una volta siamo costretti a contare i morti: questa volta sono trecento i migranti vittime della nuova tragedia nelle acque del Mediterraneo. Dopo la terribile tragedia del 3 ottobre 2013 avevamo giurato che non sarebbe più successo, e invece è accaduto di nuovo, e se non interveniamo, accadrà ancora.
Non ci sono parole per esprimere il dolore, lo sbigottimento, il senso di impotenza. Siamo di fronte ad una tragedia che interroga le nostre coscienze di cittadini europei e chiama in causa la nostra identità e la nostra cultura.
Quello che è accaduto pochi giorni fa purtroppo è una strage annunciata: come avevamo ampiamente sottolineato, l’abbandono del programma “Mare Nostrum” (che in un solo anno aveva assistito circa 150.000, tra uomini, donne e bambini) e la sua sostituzione con “Triton” (che non ha tra le sue finalità la ricerca e il soccorso delle persone) ha comportato il verificarsi di altre tragedie.
È evidente quindi il fallimento della strategia europea, come ha ammesso lo stesso commissario dei diritti umani del Consiglio d’Europa. L’Europa non può affrontare questo tema solo come problema di sicurezza e sorveglianza delle sue frontiere, ma ha il dovere morale di privilegiare il salvataggio delle vite umane. Sono persone che tentano di fuggire da guerre, persecuzioni e condizione disperate.
Secondo Amnesty International sono almeno 23.000 le persone che dal 2000 hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Europa. E’ inaccettabile che di fronte a simili tragedie l’Europa non senta il dovere di lavorare per una soluzione a questa emergenza umanitaria.
Deve farlo l’Europa se non vuole macchiarsi di una grave storica responsabilità; deve farlo il nostro paese tornando a mobilitare i mezzi della Marina Militare. Perché la vita umana non ha prezzo.

Marco Travaglini
SinistraDem Piemonte