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Eppure siamo ancora in emergenza…

Riceviamo e volentieri pubblichiamo.
E’ agosto, fa caldo, molte persone sono in vacanza al mare o in montagna .. e come ogni agosto che si rispetti si torna a parlare con insistenza ed enfasi di carcere … di crisi del sistema penale … di sovraffollamento … di risposte semplici a problemi endemici e complessi …
Sono 15 anni che opero nel mondo delle galere, e ciclicamente ho la fortuna di assistere alla levata di scudi di personalità che a tutti i costi vogliono convincerci che la soluzione dei problemi del sistema dell’esecuzione penale transiti attraverso slogan che di originale non hanno neppure più il nome.
Viviamo quotidianamente una situazione paradossale stritolati nella morsa prodotta dalla spinta giustizialista da una parte, cavalcata trasversalmente da rappresentanti del mondo politico sempre pronti ad alimentare la retorica infruttuosa e demagogica della tolleranza zero e del grido di allarme e paura verso l’ondata criminale che sta attraversando il nostro paese, e dall’altra dallo sdegno umanitario per le condizioni di difficile vivibilità in cui versa il sistema penitenziario, soffocato da un volume ipertrofico di storie rispetto alle quali ci si limita alla funzione di mero contenimento.
Il nostro presente è semplicemente il frutto dell’assenza di una politica criminale strutturata e seria in questo Paese. Fino ad oggi ci siamo limitati a strillare l’esigenza di durezza, di castigo, di punizione, di carcere, dimenticandoci completamente cosa significhi ammassare esseri umani in condizioni di scarsa vivibilità ed in assenza di progetti, proposte serie su cui costruire un futuro.
Poi ecco che qualcosa accade, arriva il caldo, la gente non sa di cosa parlare e torna in voga la vulgata degli indignati per le condizioni in cui si trova il sistema nel suo complesso.
Avete presente la storiella dell’imbuto e del flusso d’acqua ? La filosofia è semplice, se vogliamo riempire una bottiglia d’acqua utilizzando un imbuto, dobbiamo fare attenzione a che il flusso che immettiamo non sia troppo consistente altrimenti, l’acqua, oltre a scendere nella bottiglia, tracima dall’imbuto.
In altri termini come possiamo pensare che un sistema finito e limitato come quello dell’esecuzione penale possa rispondere ad un flusso sempre più grande di penalità che pervade tutti gli ambiti del vivere civile?
Un primo ordine di problemi sta appunto in questa situazione di ipertrofica penalizzazione, figlia di una cultura perversa per cui si vorrebbe delegare ogni tipologia di fallimento della nostra società al sistema della pena immaginando che lo stesso, in funzione di qualche alchimia, sia in grado di restituire cittadini rinsaviti e motivati, pronti a fare la loro parte per lo sviluppo del paese. Per ogni condotta illecita prevediamo lo spauracchio del carcere, salvo poi inventarci migliaia di orpelli per non ricorrervi sul serio. Possibile che non sia immaginabile la definizione di un catalogo serio di pene alternative utilizzabili fin dalla fase processuale?
Forzature a parte non è questo il discorso che fa da sfondo al sistema penale ? Non ci aspettiamo forse che il problema della devianza, della scelta criminale, della marginalità sociale possa essere gestito come si farebbe per un lenzuolo macchiato, rivolgendosi ad una lavanderia industriale ed esigendo un servizio just in time?
Complessità è una parola che abbiamo bandito dal nostro vocabolario, e non solo vocabolario della politica. Quello che non riesco a capire è come sia possibile che ancora ci si racconti simili storie? Come è possibile che a fronte di una malattia fisica si giustifichi il titano mostruoso della Sanità Pubblica (spesa Pubblica pro capite anno 2009 pari a circa 1780 euro), luogo di elezione della proliferazione degli sprechi e delle clientele, e che invece rispetto a vere e proprie patologie sociali ci si accontenti del pacchetto low cost: penalizzazione e galera integrato da una montagna di retorica, superficialità e approssimazione.
Mi verrebbe da chiedere alle persone che in questi giorni strillano e fanno lo sciopero della fame, quante storie di galera hanno ascoltato con attenzione nella loro vita, ed in quante situazioni si sono implicati in prima persona per trovare risposte, per tentare di costruire futuri fatti di “normalità” di lavoro, relazioni, e luoghi dove poter vivere in pace.
Leggendo gli articoli che quotidianamente la rassegna stampa di Ristretti Orizzonti pubblica mi sorgono forti dubbi circa il fatto che questa ennesima vulgata sia figlia episodica di un indignazione di pancia, superficiale, incapace di andare oltre ai sintomi più evidenti dell’apocalisse che si vive all’interno del sistema penale di oggigiorno.
Si legge di amnistie, di estensione dell’utilizzo della detenzione domiciliare, di garanti, di aumento del numero degli agenti di polizia penitenziaria, di nuove galere.
Mi chiedo se chi ora parla di amnistia abbia assistito a quello che è accaduto solo 5 anni fa in occasione dell’ultimo indulto dell’agosto 2006. In quei giorni di agosto io ed i volontari della nostra associazione c’eravamo, e sappiamo bene cosa è accaduto. Sappiamo bene quanto insensata sia stata quell’opera di svuotamento impersonale delle galere, senza un progetto, senza un supporto, senza nessuna attenzione alle vicende individuali. Salvo poi leggere sui giornali di allora che il Ministro della Giustizia ed il Capo del DAP contavano sul ruolo che il terzo settore avrebbe potuto giocare per la gestione dell’emergenza legata alla fuoriuscita selvaggia delle persone. A chi chiede a gran voce l’amnistia chiederei se ha mai avuto il tempo o la pazienza di ascoltare una storia tentando di capire quali possono essere i modi per far sì che il fallimento di ieri non si traduca in un nuovo fallimento di domani.
Il carcere non funziona per tante ragioni. Prima fra tutte perché in carcere la gran parte delle persone è lasciata in balia di se stessa. A chi strilla gli slogan chiederei di documentarsi innanzitutto, avere l’umiltà di capire come funzionano le cose prima di proporre soluzioni ancora peggiori del problema. A Torino sono stati svolti alcuni lavori di ricerca sulle dinamiche di vita all’interno delle sezioni. Ci si è accorti che la gente che ha accesso a relazioni con l’esterno, a progetti, a lavoro, ad un tempo di autentico ripensamento e ricostruzione, tende a non farsi del male, a non volersi uccidere. Facciamo una ricerca e andiamo a capire chi erano le 42 persone che in questo anno si sono tolte la vita.. cosa facevano .. cosa c’è dietro alla loro storia, forse scopriremmo che il problema non è solo il sovraffollamento.
In carcere si sta male perché il ricorso alla custodia cautelare è fuori da ogni misura. In carcere si viene mandati per ogni ragione, anche quando le stanze di sicurezza presenti all’interno delle caserme di polizia e carabinieri non sono agibili .. Esiste una statistica assai significativa che parla della permanenza media delle persone all’interno degli istituti. Una parte consistente delle persone che transitano in carcere lo fa per periodi di 5/10 giorni, che senso ha tutto questo?
Cosa stiamo chiedendo agli operatori dell’amministrazione penitenziaria .. ?
Se poi ci addentriamo nell’oscuro mondo delle persone che abitano i luoghi della pena ci rendiamo conto del fatto che gran parte degli uomini e donne che vi fanno parte hanno storie da cui è ben tracciabile il filo rosso che ha poi portato all’approdo finale. Come dire, le storie ci
dicono in modo chiaro che una parte significativa degli ospiti del sistema sono persone fragili, che faticano a stare nei binari di una società che viaggia veloce e corre il rischio di lasciarsi alle spalle un cospicuo esercito di riserve. Scarsa scolarizzazione, contesti familiari degradati, carenza/fragilità di modelli educativi, povertà, dipendenza da sostanze, migrazioni, patologia mentale. Questi sono solo alcuni tra i frame tematici che accomunano la maggioranza delle storie delle persone che abitano i luoghi di pena.
Mi piacerebbe una volta sentire gli urlatori dire qualcosa a proposito di questo. Cosa si propone per cercare di rispondere a queste problematiche? Forse chi è troppo impegnato a strillare per le piazze non si è accorto che nell’ultimo periodo quei piccoli brandelli di welfare non sanitario che esistevano sono stati demoliti in ossequio al contenimento dei costi dello Stato.
Ancora due parole sui garanti. Ho letto di manifestazioni di piazza per sollecitare l’istituzione della figura del garante. La cosa è avvenuta in particolare in Piemonte. Mi sconvolge il fatto che per il rinnovo della nomina del garante per le persone private della libertà della Regione Piemonte si scenda in piazza, mentre quando solo 10 mesi fa è stato raso al suolo uno degli ultimi strumenti che consentiva la creazione di azioni positive rivolte a persone in esecuzione penale (il bando relativo agli interventi per il contrasto alla devianza promosso dalle Politiche sociali della Regione Pimonte appunto), nessuno abbia mosso un dito, nessuno sia sceso in piazza. Il risultato è ora sotto gli occhi di tutti. Se prima, tramite quegli 800.000 euro all’anno si riuscivano a garantire alcuni interventi minimali sul territorio della Regione, ora anche questo non esiste più. A tutto vantaggio della sicurezza delle nostre strade e comunità che potranno contare su un risparmio virtuoso di risorse Pubbliche e su un numero sicuramente maggiore di persone inserite/supportate al momento della loro scarcerazione grazie all’efficacia degli interventi messi in campo dalle reti di assistenza gestite dai sistemi criminali. Per rispondere alle istanze di chi vuole accedere ad una misura alternativa, piuttosto che per supportare chi sta uscendo di galera ci rivolgeremo al volontariato che è la risposta a tutti i problemi che il nostro Stato genera sperperando enormi capitali, senza essere in grado di porre argini e/o orizzonti di impegno.
Vorrei chiedere a quanti protestano cosa ci si attende dalla figura del garante ? Che formuli un piano di intervento complessivo per un certo territorio ? Che interpelli le istituzioni garantendo che qualcosa accada ? Che ascolti le storie delle persone e trovi una risposta ? O semplicemente che rappresenti un’altra poltrona in cui far sedere qualche illustre personalità ai margini della ribalta politica che conta, riconoscendogli un onorario a fronte di nessuna responsabilità ?
Il mondo delle galere soffre per le condizioni in cui sta vivendo. Soffrono i detenuti per non avere accesso ad un trattamento dignitoso e per essere condannati ad “un ozio senza fine” potendo contare su poche occasioni di riscatto; soffrono gli agenti, testimoni impotenti di un sistema che non fa altro che riprodurre se stesso all’infinto; soffrono gli operatori educativi perché consapevoli di tutto quello che manca e anche loro impotenti nell’assistere allo smantellamento dei pochi strumenti a loro disposizione; soffrono i direttori, chiamati a mettere la firma, ratificandolo loro malgrado, su un sistema che produce e riproduce sofferenza e violenza, giorno dopo giorno.
L’auspicio che giunge da questo operatore di base è che i politici a tutti i livelli, i decisori, i magistrati, i cittadini prendano una volta per tutte coscienza del fatto che le galere fanno parte delle comunità territoriali (non solo nei caldi mesi di agosto), rappresentandone una parte importante a cui affidiamo la custodia delle storie più difficili e tribolate, delle storie più meritevoli di attenzione e cura.
Esiste un dovere etico e civile legato all’esigenza di promuovere una riforma SERIA di questo ambito di azione. Una riforma che un volta per tutte sia capace di porre un freno al ricorso alla pena detentiva e alla sua funzione simbolica, specie nei confronti dell’esercito di riservisti richiamato in precedenza: migranti destinatari di un provvedimento di espulsione, marginali cronici, malati di mente, tossicodipendenti …
Una riforma che voglia costruire risposte complesse anche e soprattutto sul piano dell’accesso a standard minimi di servizi di welfare (casa, lavoro, inclusione sociale) per poter ricostruirsi una vita nel caso in cui se ne senta il dovere, la motivazione.
Nel corso del tempo abbiamo imparato che dal trattamento dei rifiuti e dalla loro differenziazione potevano svilupparsi filiere virtuose, a tutto vantaggio della comunità e dell’ambiente ..
… forse un giorno capiremo che dalla valorizzazione delle storie che vivono confinate tra le mura degli stabilimenti penali, dipende buona parte della qualità della convivenza e della sicurezza delle nostre comunità locali …
Marco Girardello

M.G.
È laureato in Giurisprudenza all’Università Statale di Milano con una tesi in diritto penitenziario. Da circa 15 anni lavora all’interno di alcuni istituti di pena piemontesi promuovendo iniziative, progetti per lo sviluppo di servizi di welfare da rivolgere a persone con problemi di Giustizia, oltre che per lo sviluppo di lavoro penitenziario. Ha partecipato a numerosi tavoli di lavoro, seminari, convegni portando la sua esperienza di operatore di base. E’ socio fondatore dell’Associazione Camminare Insieme oltre che della Cooperativa sociale Divieto di Sosta che, temporaneamente,preside.Lavora presso la Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri di Verbania.
marco.girardello@carmes.it